Dopo il ghost writer, il writer coach e il grafico oggi vediamo un’altra professione editoriale: il traduttore.
Partiamo da un doveroso presupposto: la figura del traduttore non è morta. Certamente Google translate le ha inferto una ferita grave, ma non l’ha (ancora) uccisa.
La traduzione, infatti, non è la “semplice” trasposizione del significato letterale di ogni parola dalla lingua di origine a quella di arrivo, ma deve trasportare il senso del testo. Il traduttore deve cercare di mantenere inalterato, oltre che il senso, anche lo stile del testo di partenza.
In un testo tecnico, quindi, la traduzione sarà il più letterale possibile; al contrario, in un testo letterario la traduzione dovrà privilegiare il senso generale del testo e il suo stile e non il senso di ogni singola parola. Le cose si fanno poi ancora più difficili quando nel testo compaiono giochi di parole, magari in rima, o proverbi.
Non mi spingerò a dire che una macchina non arriverà mai a cogliere queste sfumature, ma sicuramente spero che se ci dovesse arrivare questo succeda il più tardi possibile.
La traduzione andrebbe effettuata dalla lingua originale, ma si vedono sempre più spesso “traduzioni di traduzioni”: soprattutto per le lingue meno diffuse, si traduce il testo originale in inglese e in un secondo momento si traduce nuovamente la traduzione inglese nelle varie lingue di arrivo. Un’ulteriore nota, forse non scontata: il traduttore traduce nella sua lingua madre e non dalla sua lingua madre.
Tradurre è necessario, sia per comunicare che per avvicinare a un concetto persone provenienti da diverse culture. La traduzione deve infatti tenere in considerazione l’ambito culturale che caratterizza il testo di partenza.
Come si diventa traduttore
In Italia esistono presso diversi atenei corsi di laurea triennale in Mediazione linguistica e la successiva laurea magistrale in Traduzione specialistica e interpretariato.
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