Lo show don’t tell

Lo show don’t tell, in italiano “mostra, non raccontare”, ha un’importanza fondamentale in narrativa. Tu, autore, mostra, cioè fammi vedere, non raccontare a me lettore: una scena raccontata non mi trasmetterà mai le stesse emozioni di una storia che mi viene mostrata, che vedo. Mostrando, l’autore può regalare un’esperienza tridimensionale addirittura più coinvolgente di quella di un film (e, infatti, quante volte di un film tratto da un romanzo avete detto e/o sentito “era meglio il libro”?).
Lo show don’t tell è semplice da capire, ma più difficile da applicare, soprattutto per gli autori esordienti che di solito hanno la tendenza a raccontare più che a mostrare. Un modo utile per spiegare l’applicazione concreta di questa tecnica è la prospettiva: ricordate, infatti, che il raccontato viene imposto dall’alto mentre il mostrato viene preso dal basso. Nel raccontato è come se l’autore avesse una luce onnisciente grazie alla quale vede tutta la scena, ma questa luce è poco coinvolgente proprio perché non è umana e quindi non è al livello del lettore. Se, invece, la scena viene mostrata usando lo show don’t tell il lettore la vive.

Gli strumenti dello show don’t tell

L’autore ha degli strumenti concreti per lo showing, e questi strumenti (potremmo vederli come una cassetta degli attrezzi per scrittori) spesso e volentieri si intersecano tra loro poiché la scrittura di un bravo autore è un continuum fluido.
Si possono usare le parole dei personaggi, perché utilizzando il discorso diretto la voce narrante scompare, attenzione però a non sfociare nell’infodump; i pensieri dei personaggi, utili soprattutto quando l’autore vuole optare per la focalizzazione interna, che possiamo vedere come una luce che illumina qualcosa e in questo caso l’interno del personaggio; le scene dinamiche, nelle quali viene mostrato per dimostrare, ad esempio l’autore non dirà che Mario è un ladro ma mostrerà Mario che ruba e nelle quali lo scopo della scena è contemporaneamente narrativo e descrittivo; i cinque sensi, cioè fare perno sul senso, o i sensi, che in quel momento sono più utili, più funzionali; la scrittura esatta, priva di indeterminatezza e cioè di quegli avverbi che usati in modo sbagliato non dicono nulla di concreto: una scrittura esatta, infatti, che non significa scrittura didascalica, risulta credibile e realistica, mentre una scrittura indeterminata appare artificiale e inverosimile e nella scrittura esatta ogni elemento ha la propria importanza, la propria funzione narrativa.

In conclusione…


Come in tutto ciò che riguarda la scrittura, non c’è una regola sempre valida, una ricetta di pasticceria con le grammature precise degli ingredienti, ma occorre trovare un equilibrio. Infatti, se lo show don’t tell venisse usato in tutto il romanzo avremmo una lunghezza eccessiva e un racconto pesante: l’autore deve alternare in maniera funzionale le parti mostrate, che userà per le scene più importanti e per i concetti fondamentali allo sviluppo della storia, e le parti raccontate, che userà per le scene poco importanti e per mettere in evidenza per contrasto il mostrato.

Esempi pratici

Alcuni romanzi, naturalmente solo una piccolissima selezione, dove trovate applicato molto bene lo show don’t tell sono: Il gioco dell’angelo di Carlos Ruiz Zafon, Venti corpi nella neve di Giuliano Pasini e Uno studio in rosso di Arthur Conan Doyle a dimostrazione del fatto che questa tecnica non è nulla di nuovo: non è infatti Doyle, o il narratore Watson, a raccontare ma le cose importanti vengono mostrate al lettore.
Per approfondire il discorso, invece, consiglio Dialoghi. L’arte di far parlare i personaggi nei film, in tv, nei romanzi, a teatro di Robert McKee (sì, quello delle cinque parti di cui abbiamo parlato in un altro articolo) e Show, don’t tell a cura di Marco Phillip Massai.

3 commenti su “Lo show don’t tell”

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